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Prodotti della pesca, uno studio sull’inquinamento

Salvatore Medici . 2 Novembre 2020 ARTICOLI SUL CeRVEnE

Articolo di Gianluca D’Auria, medico veterinario 

I prodotti della pesca costituiscono una buona parte del panel alimentare della popolazione italiana. I dati “ISMEA” sino al 2019 li collocavano al secondo posto come fonte proteica nelle diete, con una flessione del 7,1% nel 2020, causa coronavirus, che ha portato ad una riduzione della domanda, che fortunatamente si è scaricata quasi esclusivamente sui prodotti importati. Questi in molti casi hanno ottime proprietà organolettiche e nutrizionali, si pensi per esempio al pesce azzurro, all’elevato contenuto di omega 3 e di acidi grassi polinsaturi.

Come tutti gli alimenti, il loro consumo non è esente da pericoli: fisici, microbiologici e chimici ed è proprio su quest’ultimi che vogliamo porre l’attenzione. Le sostanze tossiche finiscono nelle acque attraverso tre tipi principali d’inquinamento: civile, industriale ed agro zootecnico. Queste attività antropiche rilasciano nell’ambiente una grande quantità di sostanze pericolose e molto spesso cancerogene come: diossine, PCB, metalli pesanti e innumerevoli tipi di diserbanti.

Gli animali acquatici sono particolarmente sensibili agli inquinanti presenti nelle acque che, attraverso il fenomeno del bioaccumulo, a sua volta dato dalla somma di bioconcentrazione attraverso l’ambiente e biomagnificazione attraverso la catena alimentare si depositano a livello dei tessuti compreso quello muscolare. Solo attraverso piani di controllo e monitoraggio si può evitare che livelli troppo elevati di tali sostanze giungano al consumatore attraverso gli alimenti.

I Biomarkers possono costituire sistemi di monitoraggio efficienti e celeri, che consentirebbero la quantificazione del grado di esposizione agli inquinanti. Essendo le variabili, per tali tipologie di studi, molto ampie non si usa un singolo biomarker, ma un numero possibilmente elevato atto a ridurre errori dati dalle innumerevoli forze in gioco.

Lo scopo del nostro studio sperimentale è stato quello di valutare come possibili biomarkers d’inquinamento 4 geni: 3 geni noti ed ampiamente studiati (mt1, sod, cyp1a1) ed 1 gene di recente caratterizzazione (apeh2). I primi tre geni intervengono sicuramente in una prima fase di risposta ad uno stress ossidativo, con attività antiossidante e detossificante. L’acilpeptideidrolasi (enzima derivato del gene apeh2) invece interviene in una fase terminale della risposta allo stress ossidativo attraverso idrolisi e digestione delle proteine irreversibilmente denaturate. Lo stress ossidativo può essere causato da innumerevoli fattori o da una loro somma, tra cui sicuramente c’è la formazione di radicali liberi che a loro volta si possono formare per l’esposizione a sostanze tossiche, ma non solo.

Le analisi sono state condotte su fegati di soggetti di Anguilla anguilla, specie selezionata come biondicatore, poiché oltre ad essere resistente alle sostanze inquinanti (sopravvive all’esposizione) presenta un peculiare ciclo biologico che favorisce l’accumulo degli xenobiotici. Le anguille sono state prelevate da 6 località della regione Campania (Sele Valle, Calore Valle, Calore Monte, Picentino Valle, Picentino Monte, Bussento Valle).

Sono state condotte analisi di gene expression a partire dall’RNA estratto dal fegato di 7 soggetti per località. Tali soggetti sono stati prelevati dal fiume, mediante elettro storditore professionale, tenuti in vita sino al trasporto in laboratorio, dove sono stati sacrificati e congelati tempestivamente a -80° C. I 7 soggetti sono stati selezionati da un pool tra i 30 e 50 esemplari, selezionando quelli con peso e lunghezza simili ed intermedi al gruppo. Oltre al fegato sono stati prelevati altri campioni di tessuti, al fine di effettuare successivamente altre analisi come per esempio la ricerca di metalli pesanti.

È stato, inoltre, redatto un report anatomopatologico dei fegati campionati, che è stato confrontato con i risultati delle analisi.

Dai risultati è emersa una diversa espressione dei geni nei 6 gruppi sperimentali.

In particolare, il gruppo Bussento Monte ha mostrato un’up-regulation solo del gene apeh2 associato a fegati con lesioni diffuse presumibilmente a carattere degenerativo. Al contrario nel gruppo Sele Valle è stata registrata una down-regulation solo del gene apeh2 di fegati privi di lesioni macroscopicamente evidenti. Questi sono solo i primi dati ottenuti, andranno integrati con analisi di un maggior numero di campioni, oltre che con studi atti a rilevare l’effettiva presenza delle sostanze inquinanti nelle acque e nei tessuti. Le cause antropologiche sono innumerevoli e rendono inutile il tentativo di discriminare attraverso il prelievo dei campioni a monte e a valle dei fiumi; infatti in teoria l’ipotesi iniziale prevedeva che i soggetti a monte vivessero in acque più pulite di quelli a valle, in realtà le sostanze tossiche sono state probabilmente dilavate rapidamente dallo scorrere dell’acqua, rendendo più significativa la presenza di fattori umani d’inquinamento vicini ai siti scelti. La nuova ipotesi da confermare è quindi che il sito Bussento monte abbia mostrato tali risultati per la presenza di una cava nei pressi dell’area di campionamento. Sostanze come i metalli pesanti, PCB, diserbanti ed altre sono molto resistenti nell’ambiente e possono accumularsi nel terreno anche attraverso le piogge, gli scavi possono quindi averle smosse e spostate nel vicino corso d’acqua. In conclusione, i dati sembrano confermare un possibile utilizzo del gene (apeh2) come biomarker di esposizione cronica e protratta agli xenobiotici, mentre per (mt1, sod e cyp1a1) un loro uso come indicatori di esposizione acuta. L’augurio è che tale ricerca possa rappresentare un piccolo tassello di un puzzle più ampio, che necessita sicuramente di più attenzione ed impegno comunitario, nei confronti di un enorme problema quale l’inquinamento.

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