scritto da Martina Di Pirro
“Rwanda, I giorni dell’oblio” è una graphic novel che ripercorre, attraverso gli occhi di una sopravvissuta, gli orrori avvenuti durante il genocidio dei tutsi nel 1994. In un caffè parigino Marie, sopravvissuta, incontra Jean, ex soldato dell’Esercito francese che le salvò la vita durante uno dei momenti più tragici del Novecento. E, nel raccontarsi, riscoprono passo dopo passo le loro vite durante quei 100 giorni, e provano a scovare insieme le verità che ancora non sono venute a galla. A cominciare proprio da quel 6 Aprile 1994, un mercoledì in cui le strade di Kigali, capitale del Rwanda, sono più rumorose del solito. Qualcuno, da un negozio, da una casa, o da un edificio poco distante il palazzo dell’allora Presidente Juvenal Habyarimana, capo radicale del fronte genocidiario HutuPower e delle milizie Interahamwe, accende la radio. Frequenza: Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM), la stazione nota per fare propaganda di odio contro il popolo dei Tutsi. «È arrivato il momento!» urla l’altoparlante «Tagliate gli alberi alti. Schiacciate quegli scarafaggi. Schiacciateli tutti quegli Inyezi!». “Il momento” è lo schianto di un missile terra-aria contro l’aereo Mystere Falcon del Presidente, con a bordo anche Cyprien Ntaryamira, del Burundi, entrambi Hutu. Gli “alberi alti”, gli “scarafaggi” (o “Inyezi” nella lingua locale), sono gli appartenenti alla popolazione dei Tutsi. «Sono stati quegli scarafaggi!» gridano gli interahamwe per le strade «Hanno ucciso il nostro Presidente!». La moglie di Habyarimana, Agathe, a conoscenza dei fatti, viene immediatamente condotta in Francia. È l’inizio della carneficina, di uno dei genocidi più feroci della storia dell’umanità. Quello che Kofi Annan ha definito «un’onta per l’umanità».
A ventisette anni di distanza da quell’evento, nessuna indagine, nessun rapporto, nessuna verità storica ha mai confermato che fu il Fronte Patriottico Ruandese (FPR), i ribelli Tutsi, a sferrare l’attacco contro Habyarimana. Certo è che al Governo Hutu serviva un escamotage, una scusa, per dare il via alle violenze e per bloccare gli accordi di pace che Habyarimana, sotto la lente accecante delle potenze occidentali, stava, con riluttanza, implementando. Le Nazioni Unite furono «colpevolmente incapaci» di fermare le violenze. Neanche la missione MINUAR, guidata dal canadese Romeo Dallaire, che da anni denunciava le violenze a danno dei Tutsi, potè nulla con il Consiglio di Sicurezza. Gli USA posero il veto sull’ uso del termine «genocidio» bloccando così i rinforzi al contingente di Caschi blu, il Belgio entrò nel Paese solo per evacuare i propri cittadini. Ma l’Eliseo fece di più. Non solo sostenne apertamente Habyarimana con l’invio di armi e addestrando le Forces Armées Rwandaises, complici del genocidio, ma mise in atto una delle operazioni più camuffate della storia: l’Operazione Turquoise.
Con la facciata di voler creare una “zona sicura”, al confine con lo Zaire (ora Repubblica Democratica del Congo), per le migliaia di rifugiati che lasciavano il Paese, in realtà riarmarono le forze genocidiarie che poterono così continuare i massacri a danno dei Tutsi. In quella safe-zone, la Radio Télévision Libre des Mille Collines (RTLM) aveva trovato la sua nuova casa, trasmettendo ondate propagandistiche di odio. In quella safe-zone i principali responsabili della mattanza riuscirono a fuggire. Un’operazione che per l’allora presidente francese Mitterand «salvò migliaia di vite umane» ma che in realtà non fece nulla per bloccare il genocidio. Nulla. Centinaia di documenti, telegrammi, note verbali dei diplomatici, una commissione d’inchiesta creata appositamente nel 1998, testimonianze di militari francesi, ruandesi, europei provano la complicità dell’Eliseo, eppure ad oggi, nonostante il riavvicinamento diffidente del Rwanda alla Francia, nessuna responsabilità è stata ammessa. La Francia non ha mai aiutato le indagini. L’unico passo fatto fu nel 2006, quando la Procura militare firmò una rogatoria internazionale al Rwanda per chiedere di fornire i documenti utili ad «identificare i reggimenti e servizi francesi presenti nel 1994». Quel plico, però, non fu mai stato spedito. Per dimenticanza, dicono.
Nel luglio 2017 accade un altro avvenimento che aiuta a comprendere quanto la questione ruandese risulti delicata in Francia: il generale François Lecointre viene nominato capo di Stato maggiore dell’esercito francese. Lecointre partecipò attivamente all’Operazione Turquoise e le polemiche come capitano di fanteria e la nomina sollevò non poche polemiche riguardanti proprio il suo ruolo in quel contesto.
Non sono poche le testimonianze che hanno tentato di rivelare la verità, nonostante le responsabilità siano sempre state negate da tutti i governi che si sono susseguiti a François Mitterand. Peccato che la maggioranza delle prove del coinvolgimento francese prima, durante e dopo il genocidio, erano protette da Segreto di Stato e gli archivi erano aperti ma non consultabili.
Il coraggio di Guillaume Ancel
Qualcuno, però, ha cercato di parlare. Un ufficiale francese ha testimoniato pubblicamente per rompere questo silenzio. Il suo nome è Guillaume Ancel. Ancel è un ex ufficiale francese che ha pubblicato libri sulle operazioni militari straniere in Rwanda e Bosnia. Dopo 20 anni di servizio nell’esercito, che ha lasciato con il grado di tenente colonnello, ha intrapreso la carriera di alto dirigente ed è tornato nel mondo degli affari, ma ha anche deciso di raccontare cosa è successo in questi luoghi nel periodo di tempo in cui era in servizio. Nel suo libro “Rwanda, la fine del silenzio: testimonianza di un ufficiale francese” (ed. Les Belles Lettres), racconta esattamente ciò che ha vissuto in quel momento.
Ancel partì per il Rwanda nel giugno del 1994, quando la violenza era al culmine e la Francia stava lanciando l’Operazione Turchese. Faceva parte del 2° Reggimento di Fanteria Straniera. Il suo compito era quello di fornire consigli ravvicinati sulla guida degli attacchi aerei sul campo. Le missioni TACP (Tactical Air Control party) vennero poi interrotte inspiegabilmente e, il 1 luglio 1994, vennero riassegnate all’operazione Southern Group Turquoise, guidata dal colonnello Hogard, per organizzare le operazioni di soccorso per le persone in pericolo.
“Ho annotato quello che ho effettivamente fatto in un quaderno, che poi è diventato libro. Il periodo è quello dell’Operazione Turchese, definita erroneamente ‘umanitaria’. Volevo scrivere in modo tale che il silenzio dei militari non si trasformasse in amnesia – racconta Ancel – Non voglio raccontare favole: i miei compagni d’armi ed io abbiamo cercato di riportare al potere le forze governative hutu, mentre erano in procinto di commettere il genocidio contro i tutsi. Così ci era stato ordinato. Abbiamo poi protetto la fuga di chi aveva partecipato attivamente al genocidio creando questa “zona umanitaria” al confine con lo Zaire, ora Repubblica Democratica del Congo. Lì, abbiamo consegnato loro le armi in modo che potessero continuare la lotta. Pensavamo di stare dalla parte giusta, ma non era così. Non solo ci sbagliavamo, ma peggio ancora, non abbiamo avuto il coraggio di ammetterlo. Eppure questo genocidio – un milione di vittime – è stato senza dubbio l’unico che avremmo potuto prevenire.”
Tra i meriti di Ancel, ne va riconosciuto uno su tutti: il coraggio. Avere unito, con un filo rosso, le esperienza più atroci del ventesimo secoli – Rwanda e guerra nei Balcani – senza paura, con la voglia di stare dalla parte della verità. Ancel più volte ha richiesto la consultazione degli Archivi francesi riguardanti il genocidio in Rwanda, proprio
Cosa succederebbe se tutti – e quindi esercito francese e Governo – decidessero di dire la verità? Cosa accadrebbe se ufficiali come Ancel riuscissero ad avere il coraggio di raccontare quanto accaduto in quei giorni? La difficoltà e poi la decisione finale, il dolore di un percorso di accettazione da affrontare prima di tutto dentro se stessi. A loro, tutti, è ispirato il personaggio di Jean in questo libro, sperando che sia da monito affinché qualcun altro possa parlare e testimoniare. Ma a Guillaume Ancel, al suo coraggio, alla dedizione senza sosta, è dedicato.
Il Rwanda oggi: la Singapore d’Africa
Le strade di Kigali nel 2021 sono ben diverse da quelle piene di sassi e fango del lontano 1994. Il Paese ha raggiunto una sua stabilità, seppur a tratti controversa, grazie alla guida ormai incastonata di Paul Kagame, presidente del Rwanda. Un paese che ha bandito la plastica e ha dato potere alle donne, presenti nella vita politica assai più degli uomini, e che ha tentato di rinascere dalle ceneri di una ferita così grande, che ha visto morire un’intera generazione. Pace e boom economico in Rwanda sembrano convivere. Un boom che va avanti da 20 anni, con una media del 7,7% di crescita del PIL annuale dal 2000 al 2019, e circa del +2% stimato nel 2020 nonostante la pandemia di Covid-19. È un ritmo che dà speranza all’ambizione del paese di uscire dalla propria condizione di “paese a basso reddito” (low-income country) e entrare nel club dei mid-income countries entro il 2035 e high-income entro il 2050, come ripetuto dagli ufficiali del governo. Un percorso che ricorda quello di Singapore, piccolo paese asiatico che che in pochi decenni si è trasformato da paese povero a hub economico globale.
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